Lo stato di emergenza da COVID 19 si è sviluppato nella fase iniziale in modo silenzioso, per poi esplodere in modo violento ed inaspettato. Ha colto tutti alla sprovvista, presi dal flusso della vita quotidiana, fatta di impegni, appuntamenti, orari. In un momento è come se tutto si fosse arrestato e fossimo stati travolti da malattia, dolore e morte.
Improvvisamente ci si è resi conto che
malattia e morte incombono costantemente sulla nostra vita. Ho visto in questo
periodo reazioni molto diverse: chi, dopo una prima fase di resistenza, è crollato;
chi ha ristabilito un nuovo equilibrio; chi ha scoperto risorse e nuove
consapevolezze.
Come medico mi sono sentito da subito coinvolto direttamente, senza neppure
pensare un attimo di tirarmi indietro. Ho dovuto scegliere di dedicarmi al mio
campo, ai miei pazienti, per non abbandonarli in un momento drammatico di crisi
globale. Immaginate cosa può succedere ad un ipocondriaco nel sentirsi
minacciato da un virus invisibile ad alta contagiosità; ad un fobico-ossessivo che
vede contaminazioni ovunque; ad un depresso che si trova improvvisamente
isolato dal mondo; ad uno schizofrenico che sente la sua fragile realtà sconvolta.
Vi è una emergenza esistenziale nuova e diversa, di una entità equivalente a
quella sanitaria ed economica, e che probabilmente si protrarrà ancora per molto
tempo.
In questo periodo ho continuato così a rimanere in contatto con i miei pazienti,
vedendoli di persona, sentendoli per telefono, per e-mail, su Skype, su Whattsapp,
su Facetime.
Si è però selezionato però un piccolo gruppo di pazienti che ha voluto
continuare a vedermi di persona, senza che io esprimessi alcuna posizione di
rifiuto o richiesta. Li ho lasciati liberi di scegliere se venire o meno alle visite e
sedute, cercando di non influenzarli, e mantenendomi disponibile. Considerate
che, in questa situazione di emergenza, la visita medica è sempre stata considerata
possibile, come necessità prioritaria. Ho continuato così a vedere i miei pazienti di
persona e solo in casi eccezionali ho visto nuovi pazienti. Si è però inserito un
nuovo elemento, prima mai considerato, la mascherina di protezione.
I miei pazienti arrivavano gradualmente sempre più protetti con mascherine di
ogni tipo, artigianali, da giardiniere, da decoratore, di tela o di carta. I pazienti
mascherati arrivavano, mi salutavano (rigorosamente senza dare la mano, sebbene
a qualcuno sia scappato prendendomi alla sprovvista), e soggiornavano qualche
minuto nella saletta d’attesa. Dopo essersi seduti di fronte alla scrivania o sul
divano, poco per volta abbassavano le difese. Toglievano la mascherina oppure la
spostavano sul mento, rendendola assolutamente inutile. Naturalmente anch’io,
avendo predisposto la misura di sicurezza della distanza, di almeno 180 cm.,
abbassavo e toglievo la mia. Ci trovavamo così l’uno di fronte all’altro, col viso
scoperto, indifesi di fronte al virus, quando all’esterno vi erano persone
terrorizzate che guidano da sole in auto con mascherina, che la utilizzano in casa
con parenti negativi, che la mettono per portare a spasso il cane. Poteva essere
incoscienza, imprudenza, superficialità? Oppure questo rappresentava qualcosa?
Considerate che non ho mai avuto nessuna voglia di prendermi il virus ed ho
utilizzato sempre ogni possibile altra misura di sicurezza. Oltre alla distanza di
sicurezza, non do la mano (anche se nella tradizione psicoanalitica questo sarebbe
un gesto da evitare sempre), disinfetto continuamente mobili e soprammobili con
alcol (arrivando a rovinare orologi, portapenne e oggetti in pelle), ogni giorno, più
volte al giorno.
Parlarsi oggi senza mascherina sembra un fatto eccezionale, soprattutto se non
avviene con i propri familiari, con cui si vive quotidianamente.
La mascherina copre gran parte del nostro volto e con esso rimangono
nascoste tutte le espressioni con cui siamo abituati ad interagire e che
rappresentano una importante via di comunicazione. Solo gli occhi rimangono
scoperti ed abbiamo sempre pensato che essi siano una via importante per le
relazioni. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, sono una porta di comunicazione
fondamentale, attraverso essi riusciamo ad entrare in contatto emotivo profondo
con le persone. Ci si guarda negli occhi per capirsi meglio. Basti pensare a quello
che accade in una delle più gravi patologie della relazione, l’autismo. Chi ne è
affetto con riesce più a guardare negli occhi le persone, le sente come semplici
oggetti tra gli altri, è disconnesso dal mondo delle relazioni, isolato nel proprio
mondo interiore.
Se parlate ad una persona con la mascherina vi accorgete che viene a mancare
qualcosa di fondamentale, e scoprite quanto può essere importante il resto del
volto. La bocca, il naso, il mento, le guance e le espressioni di almeno 2/3 del volto
scompaiono e rendono la comunicazione monca e alterata. Si perde qualcosa nel
rapporto, come se ci fosse una barriera che mette distanza, che crea diffidenza e
sospetto. La mascherina indebolisce l’empatia e allontana dall’Altro. È una difesa
legittima e obbligatoria ma, nel momento in cui studiamo la relazione, diventa un
elemento compromettente, che altera il rapporto. Nell’empatia si crea una
comunicazione speciale e particolare, che va oltre il linguaggio e la razionalità. È
un qualcosa di emotivo, istintivo, irrazionale, inconscio. È un flusso di energia che
si genera se non ci sono resistenze. Se il processo empatico è indebolito la
possibilità d’aiuto è in parte compromessa. L’empatia agisce oltre le parole o i
comportamenti, è un rapporto che diventa unico ed esclusivo e ogni più piccola
interferenza lo compromette. La mascherina è una barriera nel rapporto tra le
persone. Oggi non ne possiamo fare a meno, è necessaria.
La necessità della mascherina nei rapporti interpersonali mi ha richiamato alla
mente un episodio, avvenuto molti anni fa, quando facevo le consulenze
psichiatriche all’Ospedale Molinette di Torino. Stupisce anche me stesso come
riesca a ricordarmi la maggior parte dei pazienti, che abbia visto almeno 3 o 4
volte. Forse perché con ognuno di essi mi sono aperto all’empatia, e così essi sono
entrati in me, consentendomi una identificazione che è rimasta in modo indelebile
nella mia memoria.
Ero stato chiamato nel reparto di cardiochirurgia per un paziente, di circa 45
anni, reduce da un intervento di trapianto cardiaco, uno dei primi che veniva
effettuato in quel periodo in quell’ospedale.
Il signor Giovanni era ricoverato in una camera singola sterile, con una
anticamera di decontaminazione, dove ci si doveva vestire con indumenti
monouso, camice, scarpe, cappellino e naturalmente mascherina.
Le finestre della stanza davano verso il parco del Valentino, con un
meraviglioso panorama verso il Po e la collina torinese. Vi era un contrasto
inquietante tra la tristezza di Giovanni e la luce primaverile che entrava dalla
finestra. Impostai la terapia farmacologica antidepressiva e iniziai a vederlo
regolarmente, almeno 2 o 3 volte alla settimana. Lo incontravo sempre indossando
la mascherina, lui seduto sul letto, in pigiama, rialzato sul dorso e col suo viso
scoperto, magro e pallido. Vi era una sorta di asimmetria tra noi, non solo
determinata dal diverso ruolo, io medico - lui paziente, ma anche dal fatto che io
ero mascherato e lui no. Inoltre in quel periodo avrò avuto poco più di trent’anni,
lui quasi 15 di più. Si instaurò comunque tra noi una buona empatia, una buona confidenza, una buona relazione, anche se sempre percepivo da parte sua una
certa diffidenza. Giunto il giorno delle sue dimissioni dovevamo salutarci e con una
certa timidezza mi disse:
«Vorrei chiederle una cosa».
«Cosa, mi dica pure» risposi un po’ sorpreso
«Vorrei si togliesse per un momento la mascherina»
«Perché?» dissi io, ancora inconsapevole del significato che aveva avuto fino ad allora la copertura
«Perché vorrei vedere il suo volto»
Rimasi un momento incerto sulla richiesta. Non sapevo se potessi permettermi
un rischio del genere e eludere le regole del reparto. Avrei potuto contaminarlo e
compromettere la sua salute? Poi capii, compresi quella semplice e fondamentale
richiesta, come potevo non averci pensato prima? Dopo settimane che lui mi
vedeva mascherato come poteva avermi vissuto fino ad allora? Probabilmente avrei
svelato la mia giovane età, avrei indebolito la sua fiducia? Forse si era domandato
per tutto quel tempo che faccia avessi o quanti anni potessi avere, senza aver mai
potuto vedere i miei capelli e il mio volto.
Mi tolsi la mascherina e lui mi guardò per qualche secondo. Intravidi un leggero
sorriso, ma non riuscii veramente a capire la sua vera emozione.
Non mi ero reso conto e neppure avevo mai pensato a come poteva vedermi lui.
Ci parlavamo a lungo, mi confidava un sacco di cose ma evidentemente mancava il
mio volto al nostro rapporto.
Ho molto pensato a quell’episodio in questi ultimi tempi e questo mi ha fatto
riflettere su quanto possa essere importante in un rapporto una semplice
mascherina.
di Lodovico Berra